Storie di formiche, pesci e discepoli

Le formiche erano per me uno dei territori più affascinanti, si muovevano in queste file portentose, esatte, e si muovevano senza sosta. Le schiacciavo con la scarpa, vedevo la fila scomporsi, e poi subito formarsi di nuovo, perfetta, appena discosta dai corpi di quelle che avevo ucciso. Vedevo spesso due formiche portarne un’altra, in una faticosa marcia fin dentro al formicaio, sembrava proprio che volessero seppellirla, ma chissà come da un certo punto in poi ho cominciato ad essere certo che se le mangiassero.

Io seguivo le formiche con una bottiglia piena di alcool, lo spargevo a spruzzo sulla fila, da dove partiva fin dentro al formicaio, e lì spremevo la bottiglia, proprio nel buco, e tutto intorno, finchè la terra si era impregnata per bene. Accendere la fila delle formiche era un evento sempre emozionante, si accendeva piano piano, come una miccia un po’ umida, e poi la fiammella azzurra iniziava ad allungarsi lungo la fila, lontano, fino al formicaio, dove saliva in una leggera fiammata, e restava a bruciare per un po’ prima di esaurirsi.

Quando ero a pesca con mio nonno, amavo restare a guardare i pesci nel retino, appoggiato sulla sponda erbosa del fiume morto, o sul cemento del molo, alla marina, stavo lì a guardarli mentre soffocavano in piccole mosse, si muovevano appena, le bocche che si aprivano e si chiudevano, bocche di pesce, e le code che sbattevano di tanto in tanto, piccoli colpi di coda, ad intricarsi ancora di più tra le maglie verdi della rete. La vita usciva dai pesci, lo capivo, ma non era la stessa vita che se ne andava dalle formiche arrostite nei miei esperimenti, o dalle mosche che mettevo in congelatore, così come non era la stessa vita delle galline, a cui vedevo tirare il collo e poi subito immergerle in pentoloni d’acqua bollente, o dei gatti, che trovavamo morti nella legnaia di tanto in tanto. La vita dei pesci, quelle bocche senza parole che si spalancavano in cerca dell’acqua, era lontana, era una vita senza nome, a suo modo senza importanza, potevo guardarla per molto tempo mentre usciva a piccoli fiotti dai pesci, e più lei usciva più sentivo che i pesci si allontanavano, cambiavano, fino a restare semplicemente dei pesci di plastica.

Mi prendeva in piccole botte, la consapevolezza della vita, come quando scappai di fronte al pesce che avevo pescato, ora nulla più se non due metà di polpa bianca adagiate su un vassoio, o come quando mi bloccavo prima di infilzare il verme al mio amo, cercando di capire se avrebbe sofferto.
Più tardi crebbe in me la paura della vita, forse come una risposta di fronte a quelle mie crudeltà così spicciole, da un momento all’altro avevo paura di toccare le cose vive, di romperle, di portare sofferenza e disordine in tutto quel fermentare della vita. Restavo così in atroci dubbi prima di mettermi a tagliare il prato con la falciatrice a motore, vedendo che oltre a spezzare e martoriare centinaia di fili d’erba, di fiori e piante spinose, metteva in fuga anche nugoli di grilli di fronte a me, e altrettanti immaginavo li facesse a pezzi continuamente.

Capivo che non era possibile vivere senza interferire in altra vita, ma ugualmente restavo nel dilemma di riuscire a passare nel mondo senza schiacciare, calpestare, uccidere o fare a pezzi.

Un certo Buddha si trovò un giorno di fronte allo stesso dilemma, sorrise e passò oltre. Molto tempo dopo i suoi discepoli giunsero alla stessa soglia e si presentarono a lui disperati dicendo, maestro, è primavera, e i germogli spuntano ovunque dalla terra, come possiamo continuare a camminare senza ucciderli e calpestarli? Allora Buddha se ne uscì con lo stesso sorriso, e rispose gentilmente ai suoi seguaci: avete questo problema dei germogli? State fermi.

Autore: Niccolò Angeli
Niccolò Angeli
Amo costruire ponti di significato tra l'antica saggezza e il futuro. Spesso lo faccio creando meditazioni e viaggi interiori per facilitare la guarigione, la consapevolezza e il risveglio. Tutti i miei contenuti in inglese li trovi su Kyrian.art.

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