
La pratica quotidiana
Per chi ne comprende il fine ultimo, la vita diventa uno strumento perfetto di evoluzione. Occorre però cambiare la prospettiva del fare ripetitivo e trasformarla in una pratica, dove l’azione viene osservata momento per momento. Rimanendo uniti al flusso della vita, l’intero universo si realizza nel fare ripetitivo della quotidianità
di Maurizio Falcioni – Fonte: KarmaNews.it
Ogni giorno facciamo piccoli rituali. Questo sfugge spesso alla nostra attenzione perché si tratta di sottili procedure che innestiamo nel tentativo di proteggerci dai pensieri compulsivi. È bene fare da subito una distinzione rispetto a quello che, da un punto di vista psicologico, viene definito disturbo ossessivo-compulsivo. L’atto di ritualizzare la propria vita non sempre decade nella patologia, ma certamente non possiamo nascondere l’evidente stato attuale delle cose, un livello di evoluzione che ci vede identificati, chi più chi meno, nel flusso dei pensieri, qualche volta riuscendo a fluire con essi, altre invece subendo una vera e propria inondazione.
Siamo dunque alla ricerca costante di un metodo, una pratica quotidiana che si possa complementare con il flusso dei pensieri e aiutarci in un certo modo a sviluppare una nuova qualità di quest’ultimi.
È spiacevole ma indispensabile prendere consapevolezza della propria condizione di partenza; in questo enorme calderone che definiamo quotidianità, in verità non facciamo altro che sopravvivere giorno dopo giorno procedendo verso l’ignoto futuro che abbiamo davanti nel tentativo di identificare qualche segnale che possa condurci verso stati di piacere duraturo, come un’esigenza radicata profondamente nella memoria che ci spinge a fare ogni cosa nel tentativo di trovare gratificazione, piacere e successo.
Modificare le proprie credenze
E’ interessante, invece, ribaltare completamente l’immagine standardizzata che gran parte delle persone hanno adottato per sopravvivere, per condurre verso l’atto più semplice e ripetitivo che facciamo meccanicamente come esigenza naturale. Questa esigenza può divenire una pratica e può arricchire la nostra vita partendo dal non senso fino ad arrivare all’effetto che produce nelle profondità di ogni essere umano. La pratica quotidiana è un rituale di purificazione che facciamo con assoluta consapevolezza del nostro stato attuale. Chi vuole guarire deve necessariamente riconoscere di essere malato.
Lo stesso accade proprio nel tentativo di uscire dal disturbo ossessivo-compulsivo, una delle patologie più difficili da curare che le nuove procedure mediche affrontano partendo dalla consapevolezza; quindi si tratta di far riconoscere al paziente il proprio disturbo e lentamente prenderne distanza, cioè distanza dai pensieri compulsivi che causano le ossessioni e i rituali.
La meditazione che viene impiegata nella cura di questa specifica patologia, la scelta di unirla a forme più convenzionali è dovuto alle dinamiche che si manifestano durante l’esercizio della stessa e che vanno a completare il metodo di cura analitico. In occidente la Mindfulness e la radice dalla quale prende forma – cioè Vipassana – è diventata una pratica di osservazione innestata nei più aggiornati protocolli terapeutici. Anche l’uso della respirazione come nel caso della pratica olotropica ha trovato un posto nel mondo della psichiatria unendo dimensioni terapeutiche fino a pochi anni fa ritenute impensabili. Questo non vuol dire che siamo tutti malati, ma che lo siamo potenzialmente e che abbiamo tutti, nessuno escluso, il germe della patologia che si chiama condizionamento.
Dovremmo cercare di ripartire dall’atto quotidiano, ritualizzandolo a scopo benefico per lo spirito, seguendone il movimento, la continua risonanza che genera sul corpo e l’onda del respiro che lo accompagna. Tornare alla pratica della quotidianità ci esclude dalla possibilità di partecipare ad un altro tipo di rituale, quello che facciamo inconsciamente per difenderci dalla realtà dolorosa dell’ego che fuggono le alte sensibilità delle persone più dotate e potenzialmente pronte al risveglio.
Attivare l’intuizione
Che cos’è dunque la pratica quotidiana? Possiamo immaginarla all’interno di un’immobilità che segue leggi riscoperte da menti illuminate, ma anche nel movimento operativo che ripetiamo ogni giorno per necessità. Possiamo trovare la pratica quotidiana anche nell’ozio, in quei momenti dove sentiamo il distacco dalla fruibilità del mondo per cadere in un pozzo profondo, dove non abbiamo modo di fare nulla, se non arrenderci oppure deprimerci.

J.W. Waterhouse, “Ophelia” (1889).
Questo tipo di pratica non necessita insegnanti o guru perché interiore, quindi già compresa nell’Essere; soltanto attraverso l’intuizione possiamo riscoprirla e cominciare a praticarla.
Molte persone si dedicano alla meditazione senza neppure sapere cosa sia, non hanno mai partecipato ad alcun ritiro e mai nella loro vita sono entrati in un ashram per seguire l’insegnamento di un maestro: semplicemente intuiscono che alcuni comportamenti se adottati quotidianamente potenziano la loro capacità di esistere ed essere presenti alla vita che li circonda.
Ciò nonostante un gran numero di persone sente il bisogno di una guida, una persona che abbia già sperimentato parte di quello che essi desiderano raggiungere. Inseguono, in questo modo, un ideale attraverso l’insegnamento di un altro individuo che possa aiutarli a risvegliare quella stessa intuizione capace di riattivare una conoscenza latente e sempre esistita.
Che cos’è dunque la pratica quotidiana?
Cerchiamo ora di capire cosa sia la pratica quotidiana, come applicarla, e quali benefici porta concretamente nella nostra vita. L’atto di lavare i piatti, stirare, riordinare la propria casa, lavare il pavimento, le mani, i denti, rifare il letto, cambiare il filtro all’aspirapolvere, pelare le patate, tutto ciò che rientra nella quotidianità come ripetizione di un copione già letto milioni di volte da milioni di anni, non è altro che la nostra pratica quotidiana, l’esercizio del vivere attraverso l’osservazione consapevole. Ma cosa significa osservare? E cosa esattamente osservare durante il nostro vivere ripetitivo?
Dobbiamo osservare il continuum, lo svolgersi dell’attimo che si spiega di fronte a noi e dentro di noi. Quello che nel momento si realizza è la nostra realizzazione, non c’è futuro da realizzare di fronte all’evidenza del presente, per il semplice fatto che ciò che noi chiamiamo futuro non esiste. Non si tratta di ripetere la solita filastrocca newage, si tratta di prendere in mano la propria vita e cominciare a praticare da subito con dedizione e impegno, diventando in questo modo socialmente produttivi. Così facendo, la quotidianità – che tu sia un vagabondo oppure un miliardario americano che viaggia sul proprio aereo privato – si riduce ai minimi termine o meglio ai minimi gesti, anzi alle sfumature del tuo agire, del tuo muoverti, del respirare e dove esattamente il respiro cade sfiorando la pelle sotto le narici. Tutto e tutti diventiamo praticanti dell’eterno presente attraverso l’osservazione di ciò che normalmente viene ritenuto superfluo.
Due orientamenti interiori
Esistono principalmente due orientamenti interiori e solamente uno di questi due porta alla vera felicità. Il primo riguarda il desiderio e tutto ciò che esso ci spinge a realizzare; in questo modo, ogni azione è rivolta verso un futuro immaginifico che si presume possa realizzare questi desideri compulsivi attraverso la materia, o meglio attraverso la costruzione di un sogno che soltanto dopo averlo concretizzato crediamo essere in grado di regalarci la tanto agognata felicità. Il desiderio si insinua nel momento presente tanta quanto nelle proiezione a lungo termine; esso può condizionare ogni nostro gesto facendoci seguire dei percorsi obbligati, che sfociano inevitabilmente nelle dipendenze.
Oltre a questo primo tentativo ne troviamo un secondo che non riguarda affatto il desiderio ma è proprio per mezzo della sua assenza che si realizza. Vivere senza il pedante ronzio del desiderio è vivere una vita completamente centrata perché composta dalla sostanza dell’accettazione, linfa vitale dell’esistenza e humus per l’illuminazione. Infatti è proprio quando cominciamo a fare la vera pratica quotidiana che qualcosa in noi reagisce attivando quelle che comunemente, da un punto di vista psicologico, definiamo resistenze. Le resistenze – come la sonnolenza, la noia, la debolezza, l’ansia, la rabbia – sono tutti segnali che indicano una lotta interiore; strati e strati d’impurità governano il nostro stile di vita, condizionamenti acquisiti molte generazioni prima di noi e nel tempo calcificati si fanno sentire nel momento in cui cominciamo ad agire sul meccanismo.
La pratica quotidiana vuole quindi essere al centro dell’esistenza umana come fine ultimo della stessa esistenza. Lo scopo è ridotto all’essenziale che tradotto significa presenza mentale; questo andamento, si espande sull’intera superficie del nostro vivere quotidiano diventando uno stile di vita, trasformando di conseguenza quelle che erano abitudini e schemi mentali inquinanti prodotti dalla compulsiva attività del desiderio e dai pensieri da esso contaminati.
La pratica della presenza
Credere che dedicandosi alla verità pochi minuti al giorno possiamo dissipare tutte le menzogne dell’ego è una strategia per rimandare il vero lavoro ed esercizio di trasformazione. La mente deve essere rieducata tramite una quotidianità che lentamente viene impregnata da un insegnamento universale. Provare sporadicamente a praticare la quotidianità come strumento di evoluzione e presenza mentale non basta, è necessario immergersi completamente nella pratica cambiando la prospettiva, cioè cominciando a vedere tutto ciò che ci circonda come una palestra dove fare pratica della presenza. Quindi ci fermiamo interiormente nel tentativo di osservarci mentre viviamo. C’è un termine molto usato che identifica questa condizione interiore e cioè: “osservatore immobile”. La pratica quotidiana non ha nulla di straordinario, non bisogna recitare mantra misteriosi, non dobbiamo ripetere movimenti o assumere delle posizioni. Sarà la vita che ci guiderà verso il movimento e la vita stessa ci dirà cosa ripetere, dobbiamo soltanto osservare questo flusso, spesso disordinato, a volte distorto, a volte perverso che esprime la condizione in cui ci troviamo. La chiave che innesta la pratica quotidiana è il non giudizio, non assumersi la supervisione ego-centrata della propria vita sentenziando senza pietà sul proprio agire. Dobbiamo renderci conto che veniamo da secoli di condizionamento e quindi concederci la possibilità di essere come siamo attraverso il ruolo dell’osservatore.
La via della liberazione
Questo è solo un breve assunto di un insegnamento antico come le montagne e, anche se breve, getta una prima infarinatura sul metodo che porta alla liberazione. Dobbiamo raggiungere quella condizione che, se sperimentata, si presenta attraverso un’esperienza di leggerezza, è come lasciar cadere un grande fagotto ingombrante che ognuno di noi porta sulla propria schiena. Finalmente liberati da questa identità grossolana con la quale ci identifichiamo e che facciamo di tutto per mantenere in vita. Non dobbiamo dimenticare che colui che ha sperimentato la completa liberazione appare radioso agli occhi del mondo proprio perché assente e contemporaneamente presente a questa dimensione; in altre parole, non più identificato con il proprio io ma con il flusso della vita stessa, letteralmente “morto al conosciuto”.
È indispensabile, mentre sviluppiamo le facoltà dell’osservatore immobile, educare la mente all’amore compassionevole, giorno dopo giorno mentre sentiamo il nostro passo coinvolgere il battito del cuore e ogni altra funzione corporea, la mente dovrebbe essere sempre orientata verso il bene, verso l’unione con tutti gli esseri viventi. (vedi “La pratica dell’amore compassionevole”)
Autore: Karmanews.it
