Tenersi svegli e recitare sé stessi

Quando eri piccolo vivevi spesso in preda ad alcune manie compulsive: per esempio ti eri fissato che ci fosse un filo invisibile attaccato al tuo corpo, con l’altro capo che si perdeva chissà dove alle tue spalle. Ti ritrovavi ad escogitare complesse strategie per evitare assolutamente di intricare questo filo attorno alle cose e alle persone, così quando passavi attorno al tavolo del salotto, alle sedie, a quelli che stavano in piedi nella stanza,  sempre tentavi di ricordarti di fare al ritorno il giro inverso, così da non impigliare il tuo filo immaginario. 

Un atteggiamento simile lo avevi maturato verso gli oggetti: c’era qualcosa che scattava nella tua testa e che ti impediva di distrarti rispetto a come maneggiavi le cose. Soprattutto ti imponevi alcune regole improvvisate, per cui la certa cosa andava appoggiata così e non cosà, oppure un gesto andava ripetuto tre volte esattamente identico. Talvolta tutta questa attenzione sfociava in angoscia, quando sentivi che se avessi sbagliato qualcosa nei tuoi riti quotidiani sarebbero accadute cose terribili. 

Un altra tua tipica mania era quella di cercare in ogni modo di ingannare un certo diavolo che ti seguiva ovunque, per cui ti comportavi come se dovessi seminarlo, virando improvvisamente mentre camminavi, o compiendo gesti inaspettati e non premeditati in situazioni comuni, come il fare colazione o il mettere in ordine la tua stanza. Facevi cose assurde cercando di farle senza alcuna intenzione, all’ultimo momento, e una volta di più sapevi che  quel diavolo che abitava intorno a te era sempre in agguato.

Quando ti è capitato di incontrare gli scritti di monsieur Gurdjeff sul ricordo di sé, e gli esercizi che assegnava ai suoi allievi per essere consapevoli dei propri gesti in ogni momento, ti sei ritrovato a sorriderne pensando a questo piccolo te che inconsapevolmente escogitava le sue manie per la consapevolezza di sé. E’stato proprio così, leggevi e sorridevi a quel tuo io bambino, poi ti sei chiesto cos’era successo in tutto questo tempo, dov’era finita quella saggezza così dolce e un po’ angosciata… dov’era quel piccolo consapevole mentre frequentavi le medie, le superiori, l’università? Credi che abbia rimesso la testa fuori solo da pochi mesi.

GurdjieffGurdjeff, dal risvolto di copertina dei suoi libri, con una specie di tunica bianca, pelato e con enormi baffi ottocenteschi, mi sembrava il reduce di un manicomio criminale. Accanto alla sua c’era sempre la foto di Ouspensky, il suo allievo più noto, fedele traduttore dei suoi insegnamenti e autore del celeberrimo volume “La quarta via”;  in giacca e cravatta, con occhiali sottili e capelli perfettamente impomatati, mi sembrava il suo medico… ecco, un medico e un paziente, il primo che racconta la folle storia dell’altro. Mi erano estremamente simpatici quei due, e per una volta i libri, anche se esoterici, avevano copertine sobrie, titoli non troppo altisonanti, e una lingua era filosofica e densa.

A Firenze andai a trovare gli allievi di una scuola che faceva capo ad uno dei seguaci di Gurdjeff, abitavano al secondo piano di una palazzina vicino al centro, in una casa elegantissima e opulenta, con tende di seta alle finestre, tappeti spessi e mobili di mogano. C’era un’aria di grande pulizia, una calma che mi metteva in leggera agitazione, ascoltavo le note di Bach che aleggiavano in sottofondo nel salotto e facevo di tutto per tenere a freno una valanga di pregiudizi. 

Mi parlarono per una mezz’ora degli insegnamenti di Gurdjeff, mentre sorseggiavamo acqua frizzante insieme a dei piccoli biscotti oblunghi ricoperti di cioccolato. Non sapevo bene se leccarmi le dita dopo averne mangiato uno o fare come se niente fosse, i loro abiti perfetti e la loro pulizia non potevano non rimandarmi la mia immagine, in jeans, con una camicia viola stinta sul collo, un marsupio nero a tracolla, i capelli variamente spettinati e le dita sporche di cioccolato.

Tutto questo, mi dicevo, dev’essere teatro, dev’essere grande teatro, non è possibile che sia nient’altro. Mi dicevano  che il loro maestro, diretto allievo di Gurdjeff, aveva imposto la regola dell’abito per gli incontri formali: una lunga gonna per le donne, un completo con cravatta per gli uomini. Vedi, mi dicevano, è un modo eccezionale per essere coscienti di sé: indossando un abito che magari non ci piace, in cui siamo a disagio, che in qualche maniera tiene sveglia la nostra consapevolezza.

Dopo di ciò ho incontrato Netra, che beveva birra e fumava con fare zen nel suo completo bianco da maestro illuminato. Il primo giorno del seminario ci fu imposto il silenzio, poi andammo a cenare con la sola compagnia del rumore di piatti e bicchieri. Netra ci parlò, mentre sedevamo in cerchio su cuscini amaranto, della religione della quali egli era inventore, divinità e sacerdote. 

tubiEgli la chiamava la religione del tubo: “recitare sè stessi significa essere un tubo, un tubo vuoto, dove passa il respiro, un semplice tubo. Non ci sono regole per essere attori di sè stessi, basta essere un tubo e lasciare che l’attore lo riempia di volta in volta con il suo personaggio, noi limitandoci ad osservare questo attore al lavoro. Io, vedete, sono un caffeinomane, fumo molte sigarette e mi piace la birra, ma non è colpa mia, anche se dico cazzate, non sono io, è il tubo che parla.”

Durante il teatro sciamanico ci si guarda negli occhi, continuamente, è incredibile quanto sia difficile sostenere uno sguardo per più di qualche secondo, eppure noi tubi ci guardavamo negli occhi anche per cinque minuti senza essere innamorati, ma forse alcuni di noi erano in amorati, ovvero scagliati nell’amore per il tutto, senza preferenze.

Netra pratica la regola del “ti tengo sveglio io”, così come Gurdjeff trascinava i suoi allievi in viaggi in automobile a velocità pazzesche, senza mai fermarsi a fare benzina nè a controllare la cartina, e così come improvvisava sgambetti spettacolari per ogni suo seguace che si fosse incautamente assopito, Netra ci ha tenuto svegli, anche se non posso dirlo ingombrante come Gurdjeff, o bruciante come Carmelo Bene, è piuttosto fatto di sostanza leggera e pungente, non so se si adatti meglio di quei due a questo tempo in cui tutto bisogna fare piuttosto che prendersi sul serio, lui è l’attore che contiene l’attore che contiene l’attore che contiene l’attore che contiene l’attore…

La mente che ha cominciato ad assottigliarsi e a sperimentare sè stessa, dopo le ore di silenzio, il tentativo di essere tubi, la musica con cui si faceva spettacolo, qualsiasi musica, musica in quanto battito, in quanto ritmo per l’espressione, dalle colonne sonore delle meditazioni di Osho alla tecno più vibrante, fino a Sinatra o a Tiziano Ferro. Tutta la musica va bene in quanto musica di scena, non ci sono personalità che possano rivendicare i propri gusti in un teatro dove gli attori sono tubi vuoti. Questa mente che ha cominciato a zoppicare nelle scarpe nuove la mettevamo in scena con piccoli happening al centro di un enneagramma  all’aperto: chi più chi meno siamo stati tutti dei perfetti tubi parlanti.

Netra ci ricordava di amare le parole che escono in forma di voce, di amarle sessualmente, di farci l’amore mentre le pronunciavamo, come l’Osho orgasmico che in inglese spiega le sue dottrine come se stesse accoppiandosi con la propria voce.

Mentre una di noi, al centro dell’enneagramma, si lamentava di sè, si deprimeva,  poi si accettava pronunciando molti Sìììììììììììììììììì lunghi e profondi, Netra come un fulmine l’ha raggiunta da dietro, e al ritmo dei sui Sììììììììììììì ha mimato una rapidissima penetrazione anale. Essere un tubo vuol dire essere presenti, riuscire  a cogliere proprio quel momento che è il centro dello spettacolo, che è il centro sempre mutevole del palcoscenico dell’esperienza, e lo si occupa con tutto il proprio attore. “Furbi come serpi e puri come colombe”, come ebbe a dire il solito Osho.

Bene, l’avventura si è conclusa, come tutte le avventure dello spirito, con l’illuminazione. Noi tutti ci siamo illuminati. Netra ci ha fornito una sedia magica in grado di procurarci questo traguardo, una sedia capace di trasformarti in buddha non appena vi appoggi le natiche, e noi ad uno ad uno ci siamo illuminati e adorati l’un l’altro, elargendo le benedizioni come meglio credevamo, per una notte e un giorno, più o meno, e alcuni illuminandosi due volte. Netra ha espresso il desiderio che questo fosse il nostro ultimo seminario, che finalmente smettessimo di spendere soldi e consumare incenso per trovare qualcosa che abbiamo sempre appiccicato addosso: questo respirare, avanti e indietro, solo questo fatto di respirare come oggetto della nostra attenzione.

Poi, tornando a casa, nel percorso in macchina verso la stazione, e in treno, ho sentito diminuire quella sensazione, come un velo di polvere che tornasse a depositarsi dopo che ero stato lucidato a dovere. Questo non mi impediva di guardare agli altri un pò come a dei marziani, indaffarati nelle loro faccende, nelle loro abitudini, tutti intenti nell’inseguire una loro personale follia, mentre io mi distaccavo e li osservavo in silenzio, senza bisogno di giudicarli, come si osservano dei bambini persi in un loro gioco, e intanto sentivo che il gioco mi tirava di nuovo in ballo, mentre tendevo il biglietto al controllore, e scambiavo le prime occhiate con quel mondo che mi voleva indietro.

Autore: Niccolò Angeli
Niccolò Angeli
Amo costruire ponti di significato tra l'antica saggezza e il futuro. Spesso lo faccio creando meditazioni e viaggi interiori per facilitare la guarigione, la consapevolezza e il risveglio. Tutti i miei contenuti in inglese li trovi su Kyrian.art.

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